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Se a livello planetario i movimenti delle grandi placche che interagiscono tra di loro nella conformazione delle terre emerse e dei fondali oceanici, sono i principali responsabili dei sommovimenti tellurici, a livello locale i terremoti non sempre si collegano unicamente ai movimenti di queste grandi placche, ma sono generati anche da altri fattori più strettamente legati alla conformazione geologica locale, ovvero a fenomeni di antropizzazione, ovvero dalla presenza sul territorio dell'uomo e dei suoi manufatti.

Una delle cause che possono provocare piccoli sommovimenti tellurici, è la realizzazione di dighe e bacini idrografici. Particolarmente significativa al riguardo, è la tragica esperienza del Vajont. La famosissima diga del Vajont, infatti, ha provocato nel corso della sua triste storia, numerosi episodi di sismicità di limitata entità, ma che lasciavano intendere chiaramente i minimi movimenti di una frana precaria posta sul fianco del monte Toc. Erano i gemiti della frana che provocò dapprima l'inondazione dei paesi di Erto e Casso, per poi giungere fino a Longarone. Si trattava di uno strato di materiale sedimentario instabile già da tempi antichi, che a causa delle sue proprietà probabilmente aveva già dato il nome proprio al monte del quale faceva parte: Toc, ovvero “pezzo”, proprio per lasciarne intendere l'inconsistenza. Il movimento franoso si manifestava, oltre che con fratture superficiali del terreno, che dimostravano la sua tendenza allo scorrimento verso il bacino dovuto all'appesantimento delle sue strutture impregnate d'acqua, anche mediante piccole scosse sismiche che si propagavano proprio dalle parti in cedimento al superamento della soglia di attrito.

In questo caso, tragico e particolare, proprio l'appesantimento dell'acqua giocava un ruolo particolare. L'acqua, innalzata e abbassata ripetutamente durante le prove di tenuta del bacino, contribuiva a smuovere e lubrificare le parti instabili della frana. Le notevoli risorse finanziarie investite nel grande progetto e la necessità di far conto sul prestigio derivante dalla messa in funzione della monumentale opera, muoveva i responsabili verso un cieco immobilismo. Nonostante i vari segnali sismici, seguitarono a non voler rendersi conto della tremenda pericolosità del fenomeno, desiderando piuttosto considerare come più probabile la lenta immersione della frana nel bacino, senza conseguenze critiche. L'esistenza della frana infatti non era certo un segreto e proprio per controllarne i movimenti erano stati posti numerosi piccoli sismografi sui fianchi del monte Toc in corrispondenza delle zone instabili. Il resto della storia è ormai cosa tristemente nota.

Nel tardo 1800, le teorie geologiche che consideravano la sismicità del Friuli Venezia Giulia, si basavano sulla provata assenza di attività vulcanica anche in epoca preistorica. In Friuli infatti è nota l'abbondanza di terreni sedimentari e calcarei e la minima presenza di graniti e basalti (rocce effusive dovute a eruzioni vulcaniche). La scienza ufficiale di allora, avvallava l'ipotesi che i terremoti locali fossero dovuti a scorrimenti di ampie zolle superficiali di terreno sedimentario che appesantito dai fenomeni meteorologici, poteva subire fenomeni di scorrimento lungo direzioni inclinate. Naturalmente all'epoca non era ancora considerata una teoria generale planetaria come quella delle placche e i terremoti di più ampia estensione sembravano avere genesi unicamente a seguito di fenomeni di origine vulcanica.

La teoria delle grandi placche giunta all'attenzione degli scienziati solo negli anni sessanta, e le successive prove concrete a suo generale sostegno, ha cambiato radicalmente il pensiero dei geologi, ma a livello locale accade che ancora complessi siano i fenomeni tellurici collegati a tale fenomeno.

La situazione del nord-est dell'Italia e del Friuli Venezia Giulia in particolare si colloca nell'ambito dell'interazione di due distinte placche: quella africana e quella europea. L'Africa infatti è soggetta a un movimento verso nord, e spinge quindi le sue estremità fino a farle collidere con il continente europeo. Questa collisione ha già provocato il corrugamento che costituisce l'arco alpino. Una prova inconfutabile di tale fenomeno, è la differenza degli strati geologici e delle rocce presenti a sud e a nord dell'arco alpino. Nella zona italiana si rinvengono principalmente rocce di tipo calcareo e sedimentario, nella zona austriaca e svizzera di tipo cristallino e metamorfico tipico della placca europea.

In Friuli Venezia Giulia, inoltre, contribuiscono a rendere complesso il quadro della situazione, altri elementi legati all'interazione con la struttura dinarica, ovvero il corrugamento che partendo dal Friuli orientale si estende in territorio Jugoslavo. I tratti di divisione tra le due grandi placche africana e europea, non sono netti e precisi, se non nei tratti fondamentali, e generano nei loro movimenti e interazioni, altre forme di fratture di minore entità che giocano appunto un ruolo fondamentale nella tettonica locale. In Friuli infatti esistono fratture che formano piccole zolle geologiche che similmente alle grandi placche planetarie possiedono movimenti indipendenti e interdipendenti. Queste piccole zolle sono in grado di interagire tra di loro, essendo dotate di forze dinamiche elastiche, che tendono ad accumularsi e sciogliersi esplicandosi in terremoti locali. Queste piccole zolle si muovono strisciando tra di loro, a volte superando le tensioni opposte formate dagli attriti tra i punti di contatto. I movimenti di queste zolle in Friuli sono generalmente di tipo sovrascorrente, ovvero sono generate da strati geologici compatti che tendono a scorrere l'uno al di sopra dell'altro. Questi moti causano, in differenti località, l'innalzarsi o l'abbassarsi della quota del terreno. Successivamente al terremoto del 1976, si rilevarono spostamenti verticali locali anche dell'ordine di qualche decina di centimetri.

La situazione della crosta terrestre in corrispondenza del Friuli è piuttosto variabile, da prospezioni geologiche basate sul fenomeno della riflessione e della rifrazione sismica, si è giunti a determinare l'esistenza di piccole zone in cui la crosta è spessa fino a 55/60 km. e altre, più ampie zone in cui questa è spessa solo poco più di 20 km. La presenza di sorgenti termali, inoltre indica l'esistenza di luoghi in cui la crosta è relativamente molto poco profonda. In questi casi infatti, l'astenosfera è riuscita a penetrare con del materiale caldo zone relativamente vicine alla superficie, probabilmente sfruttando spaccature dovute alle faglie esistenti. Una di queste zone è anche presente nei pressi di Pozzuolo del Friuli con la presenza di falde di acqua calda con temperatura intorno a 70°.

L'ambiente tettonico relativamente omogeneo considerato dai geologi, oltre al Friuli comprende la zona fino a Villach in Austria, fino a Lubiana in Slovenia e fino al lago di Garda in Veneto. Lungo questa zona, vi sono principalmente alcuni punti focali dove sia a livello storico che recente, si possono ritrovare testimonianze di attività sismica ricorrente. Queste zone a rischio sono la zona di Gemona per il Friuli, la zona di confine tra il Friuli e la Slovenia, poco a nord-est di Gorizia e due zone a Nord Est e a Sud Ovest di Trento. Tra queste zone la più attiva sembra proprio la zona di Gemona, sede del tristemente famoso terremoto del 6 maggio 1976.

Le sedi ipocentrali dei terremoti considerati e sufficientemente documentati, che sono proprio quelli successivi al 1976, allorquando la Regione si è dotata di una rete di telerilevamento sismico in grado di fornire dati sufficienti per gli studi geologici, ha dimostrato la validità delle ipotesi dei sovrascorrimenti, rivelando che la profondità degli ipocentri è relativamente piccola, posta tra cinque e quindici chilometri. Caratteristica questa che contribuisce a rendere i terremoti più pericolosi dato il breve percorso delle onde sismiche tra l'ipocentro e la superficie.

Fig. 34 – Carta della sismicità del Friuli Venezia Giulia

 

Nel Friuli Venezia Giulia il massimo della sismicità è compresa nella zona di Gemona – Tolmezzo.

 

Immagini tratte da:

Modello Sismotettonico dell'Italia Nord Orientale – Consiglio Nazionale delle Ricerche

 


Fig. 35 – Sezione geologico – geofisica.

Simboli diversi indicano ipocentri di terremoti registrati in Rete Sismometrica dell'Italia Nord Orientale in periodi diversi.

Quadrati dal 1977 al 1978;

Triangoli dal 1979 al 1981

Rombi dal 1982 al 1986.

Le linee curve in basso indicano le velocità di risposta sismica individuati da prospezioni sismiche a rifrazione e indicano sostanzuialmente i diversi tipi di roccia presenti in profondità.

Immagini tratte da:

Modello Sismotettonico dell'Italia Nord Orientale – Consiglio Nazionale delle Ricerche

 

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